
Mi riverso sui torrioni lancinanti
ed apprezzo le avances del dirupo:
la mia vita si lega di continuo ai paradossi
che precipitano dal burrone
incompatibile.
—
Bazzecola

Mi riverso sui torrioni lancinanti
ed apprezzo le avances del dirupo:
la mia vita si lega di continuo ai paradossi
che precipitano dal burrone
incompatibile.
—
Bazzecola

Un’incrinatura della superficie vomita variopinte ferrovie mentre dal sottosuolo s’inabissano sottoinsiemi
Ma questo dubbio mi sta facendo deridere la teoria
E’ buffo come l’intumescente groppa del corallo si abbarbichi alla psiche
(Te l’avevo detto?)
Non ho mai pronunciato il raziocinio mondano,
io che rigurgito spezie nelle vicinanze.

Eczema che mi zooma con classe la Romania sull’epiglottide,
e poi ho visto Manzoni sulle scale, addormentato sulla mandibola (bolla, Colla, collare, collirio, ginocchiera)
no, non avevo detto di continuare a sinistra dove il tetro rivo s’adunca come una foglia di ciliegio,
cilicio,
— che fustiga,
————- le fauci di alfa centauri al centro del mio universo, ipofisi.
E che le ginocchia ti siano da monito:
il perentorio flusso dell’inquisizione spagnola non giungerà a compimento
se con le labbra continui a disegnare le stelle.
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Raccoglicavi Spiralato, Spirale Avvolgicavo

Una massa informe esplode nella mente.
E’ come un corallo che si avvinghia ai ricordi più reconditi, nei corridoi bui ove sorgono pozzi ipogei.
Ed una ctonia essenza di ylang-ylang si sprigiona in me.
—
—
—
Articolo sponsorizzato da Stanislaw Lem:
Golem XIV

scendere lungo la schiena, percolare nelle voci fragili dei bambini smarriti, lungo i pozzi rivoltati dalla tempesta, fra le secche granaglie ammonticchiate ai bordi dei campi, nel folto degli strepiti di corvi impazziti. Brividi rivoltanti, addossati alle dolci cascate del nulla, tra le abbazie scolorite dalle intemperie e nel tuorlo di uomini senza testa.
I miei brividi volano come farfalle variopinte nel vento delle steppe.


La scogliera madreporica urbana si scontra con un cielo di piombo fuso nelle ossa.
Un brivido percorre la schiena del pirata, nell’articolazione del segmento sedimentato.
Dalla rocca osservo le molecole del sogno diluirsi nell’incongruenza.
Consigli per gli acquisti:

il fermento dei vermi corrode le carni del gigante che è arcobaleno e macello.
noi siamo qui al buio dei nostri pensieri, attoniti come gerani, assopiti su un nucleo ardente di giada.
la flebile voce delle arterie pulsa nella mente del netturbino.
appeso a un sogno, strozzato alla rovescia, misuro le costellazioni.
il luccichìo di un’onda fa appena in tempo a trafiggermi
mentre con gli occhi nelle mani farfuglio la mia ultima verità.

Sui rivoli della fronte la verità.
Martina andò a Catania.
Incontrò la fortuna camminando lunghe ore sulla spiaggia.
Dopo qualche giorno arrivò suo marito col quale litigò,
avevano due visioni differenti.
Nessuno si tirò indietro.
Nessuno ascoltò.
S’inabissarono nei pensieri.
Si prese una pausa.
Visitò la gioia.

tu che mi guardi coi tuoi occhi rapiti,
tu che mi rapisci lo sguardo, che metti radici nei miei pensieri,
un fittone lungo ed infernale,
una sgualdrina celeste,
un asse smassato ed illeso,
una pietra ti ho tirato
nel tuo stagno di rifiuto,
le onde stagnanti
rifugiate in una nube
nuda.

pezzi di nulla si accartocciano in me.
sono uno scivolo fatato in cerca di emozioni.
il mio polso è una navicella spaziale.
frammenti di essere svuotano la mia pace.

Barbigli navali inabissati sull’orlo della tua faccia.
Facciata di chiesa romanica sradicata, decadende, con mattoncini freschi e buoni.
Odor di lavanda. Preziose ore sparse come prezzemolino sulla mente.
“La poesia è un codice senza messaggi:
l’essenza della maschera non è la maschera ma la faccia disotto,
assoluta, segregata,
derelitta e peregrina”
—
Utopia sfocata: un’incomunicazione assolutamente evidente:
raramente ho visto tasselli così casualmente ben uniti
—
Indefinitamente
—
Oppure la frutta avariata,
derelitta, peregrina
lettera sparsamente sparsa
che raggela il sangue nelle vene.
Su tutti i miei canali, a reti unificate.

saggia questo mio raggio, laggiù è già maggio,
fra i mogi faggi pigia i bigi righi e ridi ora che
lo stige esige un ligio fregio sui fradici grigi mici bruci.

Voragine immensa.
Coperchio senza ombra.
Cippo minerario fluente, ricco di sbandamenti.
Il filo del rasoio, devi seguire il filo del rasoio.
Ma la mente non riesce a fermarsi e scivola, scivola via nel profondo pozzo della vita.

Accolgo la buona novella.
Rintraccio le orme del gigante sulla pelle.
Mi avvolgo come un nastro senza ritorno.
Voli pindarici.
Con un pizzico di sale.

Nella mia astronave raggiungo il punto più alto dell’universo.
Poi scavo ancora e ledo la soffice superficie di questo sogno che è una bolla gigantesca pronta a scoppiare.

Ho visto l’invisibilità di questa sedia.
Mi sono concentrato per lunghe ore, per lunghe lunghissime attese.
Seduto in me, seduto nella mia visione, nel mio autunno nascente visionario.
Ho contemplato l’assenza.
Non inibii i miei sensori, mi espansi nell’aere della sera incidendo con un graffio la buccia del cielo (invisibile).

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